La cura del benessere degli animali in allevamento è uno dei punti di eccellenza per qualsiasi azienda zootecnica che voglia accedere a finanziamenti pubblici.
Ogni settore della zootecnia ha le sue regole e standard di riferimento che permettono di valutare il corretto comportamento dell’allevatore e la qualità di vita degli animali in allevamento. Sorge spontanea la domanda: abbiamo uno standard per l’apicoltura?
Non esito ad affermare di non essere in grado di dare una risposta.
Non esito ad affermare di non essere in grado di dare una risposta.
Un tentativo si può fare partendo dall’analisi delle esigenze biologiche dell’alveare, inteso come organismo unitario complesso, e della sua dipendenza dalle condizioni fisiche interne ed esterne all’arnia, intesa come il luogo in cui vive l’alveare. Mi rendo conto che certe precisazioni possono sembrare superflue ma, sono necessarie per delimitare il campo di osservazioni e considerazioni propedeutiche alla soluzione cioè sono, con linguaggio matematico, le condizioni a contorno.
Tra le condizioni interne dell’alveare assume importanza primaria la densità della popolazione intesa come rapporto tra numero di api e volume disponibile.
E’ noto che le api sono in grado di condizionare l’ambiente alveare, mantenendo sotto controllo l’umidità e la temperatura, agendo principalmente sulla circolazione dell’aria e sulla produzione del calore; con quale meccanismo?
La circolazione spontanea dei fluidi gassosi, come aria e vapore acqueo, tra due superfici è fortemente influenzata dalla distanza tra le superfici stesse, questa condizione è talmente importante che a distanze inferiori ai due centimetri il moto convettivo spontaneo rallenta fino ad arrestarsi come ben sanno i costruttori di pannelli solari e di vetri per finestre vetrocamera.
Ora la distanza tra le superfici dei favi di covata, che è di tredici millimetri e mezzo, rientra perfettamente in questo parametro per cui, in mancanza di un’azione specifica, il ricambio spontaneo dell’aria nello spazio interfavo avverrebbe con grande difficoltà.
Per di più, la presenza fisica delle api, cioè la densità di popolazione, nello spazio interfavo rallenta ulteriormente il moto convettivo, fino ad arrestarlo, sicché il semplice movimento di riempimento o di svuotamento dello spazio interfavo, a cui si somma l’azione specifica di ventilazione, non è soltanto condizione necessaria e sufficiente ma è, addirittura, indispensabile alla regolazione del clima all’interno dell’alveare.
Abbiamo individuato uno dei parametri fondamentali capaci di determinare il benessere dell’alveare che in termini apistici chiamiamo “forza dell’alveare”.
Questo ci pone davanti ad altri due interrogativi :
- cosa significa alveare forte?
- come possiamo misurare cioè rapportare ad un dato numerico questa forza ?
La pluri-decennale pratica apistica ci dice che un alveare su tre favi può essere altrettanto forte di un alveare su dieci favi, la condizione comune è la popolosità; se le api, nella condizione di assenza di attività di raccolto, ideale per un effettivo controllo visivo, occupano fisicamente tutto lo spazio disponibile, siamo di fronte ad un alveare forte e le api sono in condizione di difendersi dalle variazioni climatiche esterne e dall’attacco di predatori o parassiti. Quella che conta è la densità di popolazione.
Possiamo rapportare questo dato empirico ad un valore numerico; la superficie di un favo è di centimetri quadrati 1084,2 mentre la distanza tra le facce di due favi adiacenti è di cm 1,35 da cui il volume dello spazio interfavo è di centimetri cubi 1463,7, sappiamo che per occupare fisicamente la superficie di un favo occorrono circa 2000 api e che le api hanno uno spessore di circa centimetri 0,4, se ne ricava che nello spazio interfavo ci possono stare tre strati teorici di api cioè 6000 api da cui si ricava che la densità ideale di api per centimetro cubo è di 6000/1463,7 = approssimato a 4 api/centimetro cubo.
Questa è una delle condizioni di benessere dell’alveare.
Ma, come farà l’apicoltore a fare la conta?
Non occorre fare la conta.
Qui subentra la pratica, sono le stesse api che ci danno l’informazione.
L’apicoltore deve soltanto prendere l’abitudine di adoperare il diaframma mobile, a chiusura dello spazio concesso alle api, posizionandolo dopo l’ultimo favo a sinistra (guardando da dietro). Quando la superficie interna del diaframma, quella affacciata al favo, è completamente coperta di api, vuol dire che lo spazio interfavo è pieno al punto giusto, allontanandoci da questa situazione ottimale potrà essere necessario un restringimento dello spazio a disposizione delle api che si realizza asportando dei favi.
Ogni ape, come tutti gli esseri viventi, per il semplice fatto di vivere produce del calore, in effetti è una fonte puntiforme e mobile di calore che, in più, può volontariamente attivarsi per intensificarne la produzione, un meraviglioso e duttile strumento per il controllo del clima interno all’alveare.
La produzione del calore biologico è associato alla produzione di vapore acqueo e di anidride carbonica, provenienti dalla respirazione, due gas più pesanti dell’aria che tendono spontaneamente a depositarsi sul fondo dell’arnia o in zone non riscaldate come ad esempio gli spazi vuoti oltre il diaframma mobile. Una buona pratica apistica, in vista di un periodo di forzata claustrazione, è la centratura dell’alveare rispetto all’arnia che lo ospita mediante il restringimento tra due diaframmi mobili; gli spazi vuoti, adiacenti alla due pareti laterali, diventano camere di condensazione del vapore e contribuiscono a mantenere asciutta e confortevole la porzione di arnia effettivamente occupata dalle api.
Un altro fattore interno, di cui l’apicoltore si deve preoccupare e che contribuisce notevolmente al benessere dell’alveare, sarebbe meglio dire alla garanzia del suo futuro, è il livello delle scorte.
I grandi maestri del passato affermano che le api devono vivere nell’abbondanza e che l’apicoltore non deve preoccuparsi unicamente del raccolto, a quello penseranno le api, è il loro mestiere. La preoccupazione principale dell’apicoltore deve concentrarsi sul benessere dell’alveare sotto ogni aspetto. Veniamo dunque alle scorte. Normalmente la preoccupazione per questo aspetto dell’allevamento nasce nell’apicoltore al momento dell’invernamento; questa parola assume significati molto diversi nelle varie regioni italiane in effetti la penisola attraversa ben nove paralleli e la catena montuosa che la percorre tutta, delimita due versanti climatici orientati rispettivamente ad est e ad ovest e presenta un grandissimo numero di vallate; questo enorme patrimonio di microclimi, responsabile della varietà di mieli prodotti in Italia, comporta tempi e modi di intervento diversificati.
Come regolarsi con le scorte?
Vanno considerati almeno tre aspetti, la quantità, la qualità e la collocazione all’interno dell’arnia.
L’esperienza ci permette di dettare una regola generale di grande prudenza. Facendo l’ipotesi di un inverno apistico che duri da novembre a marzo, con temperature esterne talmente basse da indurre le api a riunirsi in glomere, la regola è di assicurare agli alveari due favi di polline e miele ai due lati dell’arnia ed una corona di circa dieci centimetri di miele nella parte superiore di ciascun favo interno. Tutto questo non può realizzarsi all’ultimo momento ma è il risultato finale di alcune azioni preparatorie che l’apicoltore e le api mettono in atto con sincronismo. Per solito sulla coda dell’ultimo raccolto dell’anno le api, prudentemente, immagazzinano le scorte per un successivo periodo di carestia collocandole strategicamente rispetto allo spazio disponibile ed alla popolazione attuale; compito dell’apicoltore è di favorire ed ottimizzare questa azione in previsione di una probabile riduzione naturale della popolazione e della futura formazione del glomere. Cose semplici però determinanti se attuate con tempestività come il posizionamento degli alveari con orientamento sud-sudovest ed il restringimento del volume dell’arnia, togliendo i melari al momento giusto che dovrebbero rientrare negli automatismi comportamentali dell’apicoltore. Una particolare attenzione deve essere rivolta alla qualità delle scorte, molto pericolose sono le scorte composte principalmente da melata che produce molte scorie nell’intestino dell’ape con possibili effetti di tossicità e di scariche diarroiche nei lunghi periodi di clausura, una vera disgrazia. La pratica del nomadismo per solito ci mette al riparo da questo inconveniente, a meno che la produzione di miele di melata non rientri nel programma produttivo aziendale come ultima produzione annuale, in questo caso il rimedio è la sostituzione delle scorte.
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