venerdì 9 novembre 2012

Apicoltura tradizione è innovazione


Una delle prime cose che mi ha insegnato il mio maestro di apicoltura è che l’apicoltore deve essere in grado di capire quello che le api si accingono a fare e giocare d’anticipo per volgere a proprio favore quello che esse faranno; tutte le volte che l’apicoltore si intestardisce a volere comandare alle api, inevitabilmente, va incontro a cocenti delusioni.
Dalle mie parti, in provincia di Trapani, gli apicoltori sono piuttosto tradizionalisti, hanno saputo resistere al fascino
nordico delle bionde, almeno per le api regine s’intende, si sono accontentati di utilizzare al meglio quello che hanno trovato in loco anche se, purtroppo, oggi le api autoctone, api Sicule, risultano fortemente inquinate, però è confortante constatare che la sicilianità tende naturalmente a prevalere sull’italianità.
L’anno orribilis per l’apicoltura siciliana ha una connotazione precisa 1983.
In precedenza, negli anni settanta, non so bene perché, la Regione Siciliana decise di dare un forte impulso all’apicoltura finanziando l’acquisto di arnie e sciami anche per piccoli quantitativi, i soliti finanziamenti a pioggia. Gli apicoltori siciliani non furono in grado di soddisfare la forte richiesta, inizia così il primo inquinamento massiccio dell’ape autoctona, l’ape Sicula.
Le importazioni più massicce e sistematiche si realizzarono nella Sicilia orientale dove, da sempre, si pratica un’apicoltura da reddito e dove l’ape Ligustica venne apprezzata per la sua capacità di realizzare grandi raccolti su fioriture brevi ma intense come quella dell’arancio.
Nella Sicilia occidentale invece prevale e tutt’ora resiste l’ape sicula, perché più adatta anche a fioriture poco intense e prolungate, per la sua grande capacità di ispezione del territorio e la sua frugalità.
La prima grande moria a causa della varroa risale, come detto, al 1983, e ancora una volta, per alcuni anni, si dovette sopperire all’assoluta mancanza di api con l’importazione dal nord. Nel giro di pochi anni ci si accorse della scarsa adattabilità dell’ape Ligustica e si ritorna con grande pazienza al recupero dell’ape Sicula. 

Ape sicula
Risale al 1990 l’inizio della collaborazione con l’Università di Brema, interessata allo studio del comportamento dell’ape Sicula, in particolare al suo comportamento riproduttivo. Nello stesso anno viene pubblicato il manuale di Michele Campero che propone il suo telaino trappola indicatore, inizia così una stagione favorevole per gli apicoltori della provincia di Trapani e la mortalità di alveari per varroa diventa un evento sempre più raro in special modo quando al telaino Campero viene associato un trattamento autunnale con acido ossalico. E’ vero che l’uso del telaino Campero comporta visite con frequenza di dieci dodici giorni ma bisogna dirla tutta, il telaino Campero si adopera all’inizio della primavera, un periodo dell’anno in cui gli alveari sono in crescita e si preparano alla sciamatura e, in ogni caso, vanno tenuti sotto controllo. L’uso del talaino Campero, che è anche indicatore della tendenza dell’alveare, permette all’apicoltore, che ha imparato a leggerne i segnali evidentissimi, di iniziare e finire la visita all’alveare con la sola lettura del telaino indicatore Campero, con grande risparmio di tempo e con interventi perfettamente mirati in quanto suggeriti dalle stesse api, chi afferma il contrario è semplicemente ignorante.
Per tornare all’ape Sicula, dagli studi dei ricercatori dell’Università di Brema emerge che questa ape ha delle caratteristiche genetiche e comportamentali che la classificano come un’ape più arcaica rispetto ad esempio all’ape Ligustica o alla Carnica.
Ma la vera rivoluzione si ha nell’anno del signore, come usava dire una volta, 2003.
Al XXXVIII Congresso Apimondia di Ljubliana un apicoltore, nostro connazionale Francesco Mussi di Massa, annuncia una sua scoperta sul campo della lotta alla varroa di una semplicità disarmante e, come poi comprovato, di un’efficacia inimmaginabile. Dopo un primo anno di prove preliminari e alcuni anni di applicazione massiccia, su un allevamento nomade di diverse centinaia di alveari, visti i risultati sorprendenti, nel 2008 ho portato il metodo a conoscenza degli apicoltori dell’associazione di Trapani con risultati omogenei e costanti in tutti gli allevamenti in cui il metodo è stato applicato, supportato con i suggerimenti dettati dalle esperienze maturate in precedenza.
Fermo restando che lo Spazio Mussi è stato sperimentato e messo a punto in Toscana su api Ligustiche e che nel resto del territorio italiano ci sono esperienze contrastanti, trascurando quello che dicono i soliti tromboni più interessati al commercio dei farmaci che al miglioramento qualitativo del lavoro dell’apicoltore e delle produzioni, prendendo in considerazione i risultati di quegli apicoltori di cui ci si può fidare e che veramente si sono cimentati nel metodo Mussi, si registrano risultati positivi e negativi distribuiti in modo casuale, a macchia di leopardo, su tutto il territorio nazionale anche in zone tra loro limitrofe e con api, al di fuori del territorio siciliano, di razza Ligustica è d’obbligo porsi delle domande.
Alphandery, autore del famoso trattato completo di apicoltura (edizione italiana del 1935), riporta un’indagine della “Gazrtte Apicole” presso i maggiori apicoltori internazionali del suo tempo; la domanda era: 
si può vivere di apicoltura?
Tra le varie risposte è particolarmente attuale quella che qui riporto

Risposta di P. Berdard, ingegnere chimico, personalità apistica, autore di parecchi lavori. 
« Dopo le trasformazioni considerevoli sopravvenute nelle condizioni generali d'esistenza e ad un' epoca nella quale tutto è instabile e sopravvalutato, è difficile dare una risposta affermativa alla vostra domanda: << Si può vivere unicamente occupandosi d'apicoltura? >>. Le esigenze di ciascuno sono divenute così grandi, che la macchina sociale rischia di immobilizzarsi per l'inceppamento di tutte le sue ruote. Ciò non di, meno, personalmente sono del parere che si può perfettamente vivere occupandosi solamente d'apicoltura, ma però ben poche persone presentano le condizioni essenziali per riuscirvi. 
E' necessario dapprima, con delle pretese moderate, amare le api molto più del miele, e avere un temperamento speciale. Abbisognano delle conoscenze varie, dell'iniziativa, della perseveranza, amare lo studio, la documentazione e la sperimentazione
Non considerare l'apicoltura come una scienza esatta, come la matematica, che si può assimilare dalla lettura di opere speciali, tutte troppo categoriche, 
ma sapere e potere passare, al vaglio di una prova imparziale, comparativa e prolungata, i metodi classici e quelli che ne dissentono, ed occorrendo saperne pure mettere in pratica qualcuno, prima di potere finalmente darsi unicamente all' apicoltura
I risultati tardano sovente a venire ed il capriccio mutevole delle stagioni facilmente elude le speranze le meglio fondate. Va da se che in difetto di arnie, l'esercizio di un' altra professione si rende necessaria. Una regione molto mellifera aiuta molto per la soluzione del problema, ma una regione ordlnaria con metodi appropriati, è in generale pure buona, poiché le regioni molto mellifere, d'altra parte assai rare, soventemente sono sovraccariche di arnie e di malagevole esercizio». (frammento da “La Gazzette Apicole”, Montfavet-Avignon 1920).

 Allora in ossequio a questa affermazione, ripensando a tutto quanto e senza volere offendere nessuno mettendo in discussione la qualità della conduzione degli apicoltori che hanno provato veramente lo Spazio Mussi, senza distinzione sul tipo di ape allevata, la domanda che può avere un nesso con i risultati riferiti potrebbe essere:
- gli apicoltori che hanno sperimentato lo Spazio Mussi hanno tenuto conto delle reali esigenze delle api?
E, approfondendo ulteriormente, distribuendo in due categorie gli apicoltori
a) Con risultati positivi;   b) Con risultati negativi,
quali possono essere le somiglianze o le differenze nel modo di rapportarsi alle api tra questi apicoltori?
Mi rendo conto che questa può sembrare una linea di pensiero asimmetrica, rispetto alla ricerca ufficiale ma, dopo avere sperimentato per sette anni con successo il metodo, mi viene difficile pensare che si possa rinunciare a capire il perché e il per come di questi risultati contrastanti.
La storia naturale ci insegna che la molla della perpetuazione delle specie è la diversificazione, è l’estensione di questo serbatoio di possibili strumenti che garantisce un futuro agli esseri viventi, l’intelligenza è uno di questi strumenti non rinunciamo ad applicarla in ogni possibile direzione.
Scritto il 20 giugno  2011





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